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(ovvero:l’ambigua universalità dei sentimenti)

 

“L'essere che può venir compreso è linguaggio” - dice Gadamer e, al di là dell'interpretazione che ne è circolata, a partire dalla vulgata  di Vattimo, in qualche modo l'affermazione trova nobili e alti sostegni nella tradizione di pensiero che ci costituisce. Penso ad esempio ad Aristotele per il quale il linguaggio “è l’ambito comune ad ogni forma di sapere e di comunicazione umana”, lo strumento che “organizza il nostro modo di parlare del mondo, di pensarlo, di interpretarlo”.

Ma oggi questa tradizione, credo più che mai prima, sembra sfociare in una babelica sovrapposizione di tentativi egemonizzanti. E il non addetto ai lavori - in senso istituzionale, per esempio - rischia lo spaesamento proprio nella cosiddetta "casa dell'essere" - secondo la bella definizione che del linguaggio dàlo stesso Gadamer. E tuttavia non sa prescindere - il soggetto è sempre il "non addetto ai lavori" - dall'interrogarsi ogni volta, alla ricerca di un significato stabile che lo aiuti a far fronte al bisogno continuamente riaffiorante di dare un contenuto di senso alla sua esperienza esistenziale. Un bisogno che muove non dall'ambizione di spingere lo sguardo oltre  l'orizzonte già aperto da altri, ma proprio di ritrovare il senso smarrito dell’Heimisch, quel sentimento familiare di co-appartenenza all' Essere, che è parte di un comune sentire, al di qua di ogni dotta enunciazione.

Ma non è soltanto sul piano delle lingue naturali storicamente affermatesi che vedo profilarsi il problema all’idea di affrontare un tema così “caldo” come quello di oggi. Penso anche al proliferare continuo delle koinoi,man mano che la tendenza moderna alla iper-specializzazione dei saperi si trasforma quasi in un processo di speciazione da cui germinano sempre nuovi “giochi linguistici”.

Tra essi, quello della filosofia richiederebbe competenze molto più complesse di quelle che mi riconosco. E tuttavia, in quell’interno crocevia che è la coscienza individuale le direttrici concettuali s’intersecano di continuo con le pulsioni in lotta tra loro e col reale del mondo esterno, e si lasciano contaminare dal marasma delle emozioni, intrecciandovi nodi spesso inestricabili - grazie ai quali, anche,  tutto (faticosamente) si tiene.  

Ecco perché, in definitiva, la filosofia non si lascia mettere da parte per partito preso.  E torna alla mente Aristotele, per il quale la felicità è una costante ricerca di tutti gli uomini, e quindi il fine per eccellenza dell’agire umano. E poiché essa consiste nell’esercizio della ragione e viene a coincidere con la virtù, il massimo di felicità cui si possa aspirare è la vita dedita all’attività teoretica. “La felicità della contemplazione e della pura conoscenza... rende l’uomo simile a Dio, egli pure solitario e contemplatore” (cito da Vegetti).Ma il mondo greco, che per tanti versi ci affascina, erigeva a virtù l’Otium intellettuale - segno distintivo dell’essenza superiore dell’uomo, nei confronti dei Barbaroi (ossia di quelli che parlavano una lingua diversa)edegli schiavi.

D’altra parte, quel mondo, dal quale Aristotele attingeva gli spunti per la sua speculazione, era in qualche modo più semplice della nostra modernità, che propone ogni giorno paradigmi nuovi, produce e brucia valori come fossero titoli azionari, riduce “l’esercizio della ragione” a pura strategia carrieristica, trasforma le professioni intellettuali in pratiche narcisistiche e le sedi istituzionali del sapere diventano, in molti casi, vivai di burocrati in perpetua competizione reciproca.

 

Spinoza, dopo quasi due millenni, era sulla stessa direttrice di marcia: “Il frutto della mia capacità di apprendere ha fatto di me un uomo felice… Vale la pena di consacrare la vita a coltivare il proprio intelletto… Concedo agli altri di morire per ciò che stimano il loro bene… a me sia permesso di vivere per la verità”.  [Ma quale è la verità per l’uomo moderno? Per che cosa varrebbe oggi la pena di vivere… o di morire?]

Egli ci ha offerto un paradigma granitico per definire lo stato dell’essere identificabile con la felicità, anzi con la beatitudine, che la esprime ai massimi livelli. Ricordo l’alternanza continua dei miei stati d’animo e di mente, mentre studiavo l’Etica: passavo da momenti di grande esaltazione, dinanzi all’esercizio di una tale potenza intellettiva, ad altri di confusa irritazione, man mano che con gli occhi della mente vedevo crescere un edificio in cui non avrei mai potuto abitare, se non al prezzo di snaturarmi al punto da perdere ogni rapporto di contiguità con ciò che ero - e che tuttora sono.

Non so più quale dei due orientamenti fosse più forte. Ma so che alla fine, con un po’ di perfidia, mi rifeci della fatica che quello studio aveva richiesto distorcendo l’ “Amor Dei Intellectualis” in “Amor Sui Intellectualis”, ossia in ”compiaciuta contemplazione intellettuale di se stesso”.

(Ma, altrove, Spinoza scrive anche che “la chiarezza del conoscere... diminuisce il potere inventivo...”; e Antonio Renda, nei suoi “commenti e note” all’ Etica, ci segnala - dietro “il freddo geometrismo espositivo che nasconde il problema vero del suo pensare” - uno Spinoza più umano, al quale m’inchino...).

 

Come dire allora qualcosa sulla felicità se la mente non riesce a in-trattenere un'idea “chiara e distinta”del particolare stato dell' Esserci che il termine dovrebbe designare? Designare, dico - ossia alludere, indicare, rinviare a..., non definire, tanto più che fin da Giordano Bruno, come ci ricordò il Prof. Masullo in occasione di un precedente felice incontro seminariale, la tendenza a definire, propria della filosofia, poteva essere vista come un inciampo nello scacco della rinuncia all’infinito, che resta così affidato alla capacità immaginativa - più universale, forse, e di certo, almeno così a me sembra, più democratica della filosofia stessa.

Ma qui - ancora una sospensione di giudizio, ad opera dell’atteggiamento pratico orientato alla prudenza  -  l’infinito a cui mi fa pensare questa semplice riflessione, che non ha alcuna pretesa di scientificità o di legittimità metodologica, è quello che Borges chiama “la infinita algarabía  que es la historia del mundo”. Un guazzabuglio che parte dalla varietà e molteplicità delle singole prospettive da cui la storia stessa - così come la felicità  (ma l’aggiunta è mia!) - possono essere pensate.

Evito, del resto, il ricorso diretto alla Poesia, alla quale riconosco un ambito di possibilità molto più vasto e una legittimità originaria, ma che per ciò stesso aumenta il mio senso di inadeguatezza - salvo poi chiamarla in causa, come ho appena fatto, quale testimone a conferma della fattualità  a cui pure apparteniamo in quanto sinolo - ossia materia e forma combinati col concorso di contingenze di varia natura.

Né mi rimetterei al senso comune, che comune è solo in modo illusorio -  proprio perché le convinzioni su cui poggia lasciano squarci di indeterminatezza in cui trovano posto le infinite variazioni dei modi dell’Essere incarnato nella materia vivente, per intrinseca necessità del suo dispiegarsi.

 

Resta la prospettiva psicologica, che comprende quella psicoanalitica - alla quale la filosofia guarda con qualche sussiego, ma che per l’indigenza della singola coscienza rappresenta spesso l’ancora a cui appigliarsi per evitare la deriva della perdita di contatto perfino col proprio sé più intimo. Un sé nei cui confronti, consapevoli o meno, non facciamo che cercare un senso, ossia un contenuto che serva da ancoraggio e gli assicuri stabilità - senza la quale l’ Io  rischierebbe di ridursi a un vuoto calco linguistico.

E qui, pur nel ristretto perimetro dell’esperienza individuale (ma forse dovrei dire personale, giacché questa è la sola che mi è dato osservare da vicino) in cui questa riflessione tende a circoscriversi - già le cose si fanno complicate. Quando e come, nella mia interiorità fosse avvenuta la scelta ideale che mi portava a dichiarare, provocatoriamente in qualche caso, che la sola vita degna d’essere vissuta era quella della mente, non saprei dirlo. Ma per poco che mi siano note le coordinate principali del pensiero di Freud, so che l’esistente adulto è spesso portatore di tendenze che possono assumere la forza cogente di un conatus  irresistibile. Ma questo andrebbe generalmente in direzione opposta a quello teorizzato da Spinoza  (...oppure no???). 

Ricordo inoltre la sua teoria della sublimazione e di una civiltà umana cresciuta grazie al sacrificio imposto ai singoli attraverso l’educazione e l’organizzazione sociale. E quella sua pensosa notazione secondo cui “... se la civiltà esige sacrifici tanto grandi... allora si comprende perché l’uomo stenti a trovare in essa la sua felicità...”

Penso allora al bisogno di solitudine, cho ho sempre intesa come conquista di libertà dagli impegni del sociale nelle sue varie articolazioni, e come intimità con me stessa, ma che contrasta con l’insuperabile necessità umana di inter-esse, da cui non sono affatto immune.

 

So, per averne avvertito il peso, che la “scelta” cui accennavo prima, in favore dell’impegno volto alla comprensione di ciò che ci costituisce in quanto umani, mi ha segnata con una frattura difficilmente sanabile e ha condizionato pesantemente il mio quotidiano. Il bisogno di approfondimento teorico sembrerebbe infatti andare in senso contrario a quello della vita, che chiederebbe solo di essere vissuta. Ma vi sono anche evidenze concrete e testimonianze autorevoli del contrario. E mi soccorre a questo proposito un breve aforisma di Nicolás Gómez Dávila, che ha subito attratto la mia attenzione: “Vive la sua vita solo chi la osserva, la pensa e la dice. Gli altri, la vita li vive”.

E vorrei chiudere questo tentativo di riflessione in actu dando nuovamente la parola al poeta-filosofo Luis Borges, che conclude il frammento già citato all’inizio osservando che nel vorticoso guazzabuglio della storia “passano Cartagine e Roma, io, tu, lui / la mia vita che non comprendo, quest’agonia / d’essere enigma, caso, criptografia / e tutta la discordia di Babele.”

Versi come questi possono suscitare nel lettore emozioni che si sottraggono al controllo puntiglioso della ragione. Quanto a quelle che accompagnano l’erompere della visione artistica e il travaglio dell’atto creativo, una volta mi folgorò l’espressione “tormento del sublime”. Mi parve bellissima e pensai che essere artista si dovesse sempre pagare con la rinuncia alla felicità. Ma ero nella fase in cui le energie psichiche dell’adolescenza si ritraevano quasi con disgusto dai giochi noti e cercavano nuovi investimenti, che non fossero passatempi effimeri. Ripensandoci ora, mi chiedo se qualcuno la userebbe ancora un’espressione come quella, o se essa sia da considerare alla stregua di un filo di bava sfuggito a un rigurgito di romanticismo.

 

Teresa Nastri

Il testo risale al 12-12-1997 - mi segnala il mio Mac. Non fu una riflessione nata autonomamente, come in altre occasioni; ricordo di avere fatto una breve ricerca, perché mi era stato chiesto di preparare un testo sull'argomento per una serata tra amici, a cui partecipava il Prof. Masullo.

 

 

 

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